Stava pulendo i bagni del centro commerciale, un po’ indispettita dalla tanta carta lasciata sul pavimento e dal disordine generale. Aveva un piglio gentile, e un accento musicale. Le ho chiesto di dove fosse. “Vengo dal Brasile” mi ha risposto. Abbiamo parlato cinque minuti, un breve tempo che, entrambe, abbiamo colmato di informazioni.
Lei per dirmi che è arrivata a Brescia nel 2011, che non capiva nulla quando la suocera le parlava in stretto dialetto bresciano e che le persone dovrebbero rispettare i luoghi pubblici come fossero loro, perché è questione di educazione. Io per raccontarle degli amici brasiliani che, lasciata Brescia, sono tornati a casa.
Alla fine siamo finite a parlare del tempo, che là fa caldo e che qui fa freddo. Soprattutto in inverno. Le prime volte, ha raccontato, le si gelavano le dita. Poi, un giorno, ha visto cadere la neve. Per lei era la prima volta. Me l’ha detto con una lievità fanciullesca che mi ha spostata, per un attimo, in una dimensione parallela.
L’ho seguita con lo sguardo quando ha alzato gli occhi al cielo e, con le mani, ha mimato i fiocchi scendere lenti. Poi ha fissato il suo sguardo color cioccolato nel mio. Era luminoso, sorridente.
Non so come, né con quali parole, ma ci siamo salutate. Lei ha stretto lo spazzettone tra le mani e ha ripreso a pulire con energia. Io sono uscita dai bagni, pensando quanto è bello, ogni tanto, attaccare bottone con chi non si conosce, per ricevere in dono minuti preziosi che potremmo non dimenticare mai. E così sarà.
La 19ma legislatura è iniziata con l’elezione dei presidenti di Camera e Senato. Chi sono, cosa hanno detto e cosa faranno?
Credo che le persone possano cambiare. Sempre che lo vogliano. Credo anche che, per alcuni, le prese di posizione estremiste, oggi come oggi, siano solo apparenti. Convenienti medaglie su una divisa che poi, arrivati a casa, si tolgono per indossare panni più comodi e rilassati. Credo anche, ma è forse meglio dire che lo spero, sia cambiato il mondo e che in Italia non ci siano (più) i presupposti per un passo indietro nel tempo più nero della nostra storia.
Dunque: la diciannovesima legislatura è iniziata, abbiamo Ignazio Benito Maria La Russa come presidente del Senato, la seconda più importante carica dello Stato dopo quella di presidente della Repubblica. L’articolo 86 della Costituzione ci ricorda che “𝑳𝒆 𝒇𝒖𝒏𝒛𝒊𝒐𝒏𝒊 𝒅𝒆𝒍 𝑷𝒓𝒆𝒔𝒊𝒅𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒂 𝑹𝒆𝒑𝒖𝒃𝒃𝒍𝒊𝒄𝒂, 𝒊𝒏 𝒐𝒈𝒏𝒊 𝒄𝒂𝒔𝒐 𝒄𝒉𝒆 𝒆𝒈𝒍𝒊 𝒏𝒐𝒏 𝒑𝒐𝒔𝒔𝒂 𝒂𝒅𝒆𝒎𝒑𝒊𝒆𝒓𝒍𝒆, 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒆𝒔𝒆𝒓𝒄𝒊𝒕𝒂𝒕𝒆 𝒅𝒂𝒍 𝑷𝒓𝒆𝒔𝒊𝒅𝒆𝒏𝒕𝒆 𝒅𝒆𝒍 𝑺𝒆𝒏𝒂𝒕𝒐”. Il leghista Lorenzo Fontana è stato nominato presidente della Camera (la terza delle più alte cariche dello Stato).
Chi è La Russa, lo sappiamo un po’ tutti: ha militato nel Movimento Sociale Italiano, poi An e PdL. E’ tra i fondatori di Fratelli d’Italia. Insomma, una vita votata a destra. Il 13 ottobre, dopo la sua elezione a presidente del Senato, abbiamo assistito a una scena (storica? simbolica? inquietante?) : a 100 anni dalla Marcia su Roma 𝑳𝒊𝒍𝒊𝒂𝒏𝒂 𝑺𝒆𝒈𝒓𝒆 – senatrice a vita deportata nel 1944 nel campo di concentramento di Birkenau-Auschwitz, sopravvissuta all’olocausto (non c’è bisogno di ricordare cosa è stato, giusto?) che ha fatto della sua vita una testimonianza per i crimini commessi dal fascismo – ha annunciato l’elezione di Ignazio La Russa.
Perché proprio lei? Perché, essendo la più anziana dell’emiciclo, ha dovuto presiedere la prima seduta del Senato nella nuova legislatura al posto del presidente emerito Giorgio Napolitano, che ha dovuto declinare per motivi di salute. E’ il regolamento, bellezza!
Che dire, poi, del discorso di insediamento di La Russa, quando ha citato Sandro Pertini (già) e la sua frase che lo ha ispirato: 𝒏𝒆𝒍𝒍𝒂 𝒗𝒊𝒕𝒂 è 𝒏𝒆𝒄𝒆𝒔𝒔𝒂𝒓𝒊𝒐 𝒔𝒂𝒑𝒆𝒓 𝒍𝒐𝒕𝒕𝒂𝒓𝒆 𝒏𝒐𝒏 𝒔𝒐𝒍𝒐 𝒔𝒆𝒏𝒛𝒂 𝒑𝒂𝒖𝒓𝒂, 𝒎𝒂 𝒂𝒏𝒄𝒉𝒆 𝒔𝒆𝒏𝒛𝒂 𝒔𝒑𝒆𝒓𝒂𝒏𝒛𝒂 . Oppure, che dire del 25 aprile, 1°maggio e 2 giugno “date che hanno bisogno di essere celebrate da tutti”, ha detto La Russa, e di quell’unità tra le parti, tanto rimarcata che lo ha portato a dire: “sono sempre stato un uomo di parte, di partito. Ma in questo ruolo non lo sarò”. Beh, non so voi ma io un po’ stranita lo sono. Le persone possono cambiare? Ci credo, ma vengo categoricamente delusa. Eppure continuo a lottare, proprio come diceva Pertini, anche senza speranza.
Poi arriva Lorenzo Fontana, politico che sui social pubblica foto di santi, sante, madonne, Salvini (glielo avrà insegnato lui, a farlo?) e che crede nella difesa dei confini dalle 𝒊 𝒏 𝒗 𝒂 𝒔 𝒊 𝒐 𝒏 𝒊 . Il suo curriculum parla di manifestazioni per la famiglia tradizionale (e io, qua, sono già segnata sul taccuino nero), di posizioni antiabortiste, anti LGBT+ e filo putiniane. Integralista ultracattolico, anti euro…
C’è altro? Sì, ma ho già bruciore allo stomaco, mi fermo qua. Sia chiaro, lui è assolutamente libero di avere le sue idee (le parole e le azioni, però, vanno sempre pesate), il punto è che non vorrei le imponesse a tutti visto che è la terza più alta carica dello stato.
Il presidente della Camera, tra le altre cose, “𝒅𝒆𝒄𝒊𝒅𝒆 𝒅𝒆𝒍𝒍’𝒂𝒎𝒎𝒊𝒔𝒔𝒊𝒃𝒊𝒍𝒊𝒕à 𝒅𝒆𝒊 𝒑𝒓𝒐𝒈𝒆𝒕𝒕𝒊 𝒅𝒊 𝒍𝒆𝒈𝒈𝒆, 𝒅𝒆𝒈𝒍𝒊 𝒆𝒎𝒆𝒏𝒅𝒂𝒎𝒆𝒏𝒕𝒊, 𝒅𝒆𝒈𝒍𝒊 𝒐𝒓𝒅𝒊𝒏𝒊 𝒅𝒆𝒍 𝒈𝒊𝒐𝒓𝒏𝒐, 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒆 𝒎𝒐𝒛𝒊𝒐𝒏𝒊, 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒆 𝒊𝒏𝒕𝒆𝒓𝒓𝒐𝒈𝒂𝒛𝒊𝒐𝒏𝒊 𝒆 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒆 𝒊𝒏𝒕𝒆𝒓𝒑𝒆𝒍𝒍𝒂𝒏𝒛𝒆” e questo un po’ mi preoccupa visto che il presidente di una Camera può, di fatto, incidere sull’approvazione o sulla bocciatura della legge.
“La Camera – ha detto Fontana nel suo discorso d’insediamento – rappresenta le diverse volontà dei cittadini: la nostra è una nazione multiforme con diverse realtà storiche e territoriali che l’hanno formata e l’hanno fatta grande: la grandezza dell’Italia è la diversità. Interesse dell’Italia è 𝒔𝒖𝒃𝒍𝒊𝒎𝒂𝒓𝒆 𝒍𝒆 𝒅𝒊𝒗𝒆𝒓𝒔𝒊𝒕à” e per un attimo mi ha lasciato sperare, poi ho realizzato. Macché, signori e signore, qui si parla di autonomie locali, mica di diritti sociali. Che ne è, e che ne sarà di quel “rispetto della dignità umana e dei diritti fondamentali umani” evidenziati nel saluto di Fontana al Pontefice? La mia prof di Lettere, a questo punto, mi aiuterebbe con una valida parafrasi. Parole, parole…un tanto al chilo.
Fontana ha citato anche il beato Carlo Acutis (un ragazzino di 15 anni morto nel 2006 per una leucemia fulminante) che disse “𝑻𝒖𝒕𝒕𝒊 𝒏𝒂𝒔𝒄𝒐𝒏𝒐 𝒐𝒓𝒊𝒈𝒊𝒏𝒂𝒍𝒊 𝒎𝒂 𝒎𝒐𝒍𝒕𝒊 𝒎𝒖𝒐𝒊𝒐𝒏𝒐 𝒄𝒐𝒎𝒆 𝒇𝒐𝒕𝒐𝒄𝒐𝒑𝒊𝒆”. Lo ha fatto introducendo un discorso sull’Italia che, avendo una sua peculiarità, non deve omologarsi a realtà estere.
Ma Carlo Acutis, cosa voleva dire con quella frase? Repubblica riporta una dichiarazione della madre del giovane all’Ansa: “𝒄𝒉𝒆 𝒕𝒖𝒕𝒕𝒊 𝒏𝒐𝒊 𝒔𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒔𝒑𝒆𝒄𝒊𝒂𝒍𝒊, 𝒄𝒉𝒆 𝒑𝒆𝒓 𝒕𝒖𝒕𝒕𝒊 𝒄’è 𝒖𝒏 𝒑𝒓𝒐𝒈𝒆𝒕𝒕𝒐 𝒐𝒓𝒊𝒈𝒊𝒏𝒂𝒍𝒆, 𝒔𝒆 𝒏𝒐𝒏 𝒔𝒄𝒆𝒈𝒍𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒅𝒊 𝒗𝒊𝒗𝒆𝒓𝒆 𝒑𝒆𝒓 𝒊𝒍 𝒑𝒓𝒐𝒔𝒔𝒊𝒎𝒐 𝒅𝒊𝒗𝒆𝒏𝒕𝒊𝒂𝒎𝒐 𝒇𝒐𝒕𝒐𝒄𝒐𝒑𝒊𝒆 𝒅𝒊 𝒂𝒍𝒕𝒓𝒐 𝒐 𝒂𝒍𝒕𝒓𝒊 𝒆 𝒏𝒐𝒏 𝒔𝒊 𝒓𝒆𝒂𝒍𝒊𝒛𝒛𝒂”.
Non resta che lasciar lavorare i nostri nuovi politici perché: ormai altro non possiamo fare e qualcuno deve pur farlo. Speriamo che gli spettri rimangano nell’oltretomba, che le immagini e le parole in Parlamento non ci facciano raccapricciare oltremodo, come spesso è accaduto. E che l’opposizione faccia un degno lavoro, lasciando perdere le scaramucce e mostrandosi propositiva e incisiva.
Non citerò santi o beati, ma quel “tutti nascono…” mi riporta alla 𝘿𝙞𝙘𝙝𝙞𝙖𝙧𝙖𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚 𝙪𝙣𝙞𝙫𝙚𝙧𝙨𝙖𝙡𝙚 𝙙𝙚𝙞 𝙙𝙞𝙧𝙞𝙩𝙩𝙞 𝙪𝙢𝙖𝙣𝙞 (1948) il cui primo articolo recita proprio così: 𝑻𝒖𝒕𝒕𝒊 𝒈𝒍𝒊 𝒖𝒐𝒎𝒊𝒏𝒊 𝒏𝒂𝒔𝒄𝒐𝒏𝒐 𝒍𝒊𝒃𝒆𝒓𝒊 𝒆 𝒖𝒈𝒖𝒂𝒍𝒊 𝒊𝒏 𝒅𝒊𝒈𝒏𝒊𝒕à 𝒆 𝒅𝒊𝒓𝒊𝒕𝒕𝒊. 𝑺𝒐𝒏𝒐 𝒅𝒐𝒕𝒂𝒕𝒊 𝒅𝒊 𝒓𝒂𝒈𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒆 𝒅𝒊 𝒄𝒐𝒔𝒄𝒊𝒆𝒏𝒛𝒂 𝒆 𝒅𝒆𝒗𝒐𝒏𝒐 𝒂𝒈𝒊𝒓𝒆 𝒈𝒍𝒊 𝒖𝒏𝒊 𝒗𝒆𝒓𝒔𝒐 𝒈𝒍𝒊 𝒂𝒍𝒕𝒓𝒊 𝒊𝒏 𝒖𝒏𝒐 𝒔𝒑𝒊𝒓𝒊𝒕𝒐 𝒅𝒊 𝒇𝒓𝒂𝒕𝒆𝒓𝒏𝒊𝒕à.
E, visto che siamo in Italia e non ci vogliamo “omologare”, citiamo pure la nostra 𝘾𝙤𝙨𝙩𝙞𝙩𝙪𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚 dove, all’articolo 3 ricorda che: 𝑻𝒖𝒕𝒕𝒊 𝒊 𝒄𝒊𝒕𝒕𝒂𝒅𝒊𝒏𝒊 𝒉𝒂𝒏𝒏𝒐 𝒑𝒂𝒓𝒊 𝒅𝒊𝒈𝒏𝒊𝒕à 𝒔𝒐𝒄𝒊𝒂𝒍𝒆 𝒆 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒆𝒈𝒖𝒂𝒍𝒊 𝒅𝒂𝒗𝒂𝒏𝒕𝒊 𝒂𝒍𝒍𝒂 𝒍𝒆𝒈𝒈𝒆, 𝒔𝒆𝒏𝒛𝒂 𝒅𝒊𝒔𝒕𝒊𝒏𝒛𝒊𝒐𝒏𝒆 𝒅𝒊 𝒔𝒆𝒔𝒔𝒐, 𝒅𝒊 𝒓𝒂𝒛𝒛𝒂, 𝒅𝒊 𝒍𝒊𝒏𝒈𝒖𝒂, 𝒅𝒊 𝒓𝒆𝒍𝒊𝒈𝒊𝒐𝒏𝒆, 𝒅𝒊 𝒐𝒑𝒊𝒏𝒊𝒐𝒏𝒊 𝒑𝒐𝒍𝒊𝒕𝒊𝒄𝒉𝒆, 𝒅𝒊 𝒄𝒐𝒏𝒅𝒊𝒛𝒊𝒐𝒏𝒊 𝒑𝒆𝒓𝒔𝒐𝒏𝒂𝒍𝒊 𝒆 𝒔𝒐𝒄𝒊𝒂𝒍𝒊.
Una ragazzina di 18 anni, in visita ad una fiera su futuro, ambiente e sostenibilità, entra con un sogno ed esce con un dilemma: “Vorrei fare la ballerina, ma ora mi trovo a un bivio. Forse dovrei scegliere un lavoro che mi dia la sicurezza economica”. No, tesoro. Scegli ciò che può renderti felice.
Ricordo bene i miei sogni da bambina. Tre cose avrei voluto fare, nella vita: l’attrice, la viaggiatrice, la giornalista. Sul primo sogno, non mi sono mai realmente impegnata. Il secondo, per qualche tempo, l’ho anche toccato. Il terzo, si è realizzato. Tre sogni, ma mai ho pensato che avrei voluto diventare ricca. Indipendente, quello sì. Volevo realizzarmi al più presto nel lavoro, per non dipendere da nessuno. Ma l’obiettivo era il sogno, la passione.
A quel tempo allontanavo gli adulti che avrebbero voluto per me un lavoro “sicuro”, uno di quelli “senza grilli per la testa”, uno di quei lavori che già allora mi toglievano il fiato al solo pensiero. Se uno, o una, di quegli adulti mi faceva la ramanzina, mi chiudevo a riccio per sempre. Ho avuto la fortuna di avere una madre tale e quale a me. Una donna che metteva la propria indipendenza, economica e mentale, al di sopra di tutto. Che credeva nei sogni e che mi ha insegnato a coltivarli. Sono cresciuta con i nonni materni, siciliani, rigidi, concreti. Ma leggevano la mia irrequietezza e avevano trovato il modo di tagliare corto: quando avrai 18 anni, dicevano, potrai fare quello che vorrai.
Per questo mi irrigidisco ogni volta che, in un discorso, sento parlare di successo,denaro, potere come se queste fossero le uniche ambizioni accettabili in un mondo che è sì proiettato verso il futuro, ma ciecamente. Pensavo che le cose fossero cambiate, pensavo che le arti stessero guadagnando, nel pensiero comune e diffuso, il giusto valore che meritano. Pensavo che giovani appassionati di musica, danza, recitazione, pittura, scultura e qualsiasi altra espressione artistica, fossero liberi di inseguire i propri sogni senza giudizi o pregiudizi, senza freni. Tanto più che oggi, rispetto a trenta o quarant’anni fa, c’è la possibilità di studiare con più facilità, di viaggiare e connettersi, non solo virtualmente, ma con il mondo intero. Invece no.
Invece no, le cose non sono poi tanto cambiate se mi sento dire da una ragazza di 18 anni che lei vorrebbe cantare, danzare, ma che ora si trova davanti a un bivio perché, forse, è meglio che pensi a una professione che le dia la solidità economica. Dov’è che le sue convinzioni hanno vacillato? A Futura Expo, la manifestazione dedicata alla “visione del futuro in cui Uomo, Ambiente ed Economia possano convivere in armonia”.
Che c’entra il discorso che sto facendo con l’ambiente e la sostenibilità? Apparentemente poco, nella sostanza molto. Perché quella ragazza non è stata l’unica ad uscire da lì con le idee confuse. Ce n’è una seconda. Una ragazza che non sa esattamente cosa vorrà fare nella vita e che è in cerca di ispirazioni. Che confidava di capire qualcosa di ambiente, sostenibilità, impresa e futuro ma che ha recepito solo un messaggio: l’importanza del denaro. E non me l’ha riferito con la spocchia tipica di tanti giovani, ma con una delusione sincera. “Mi aspettavo qualcosa di diverso, invece tutti che parlavano di quanto erano stati bravi a costruire la loro impresa, la sicurezza economica, come se quella fosse l’unico obiettivo che conta”. Io, zitta. In ascolto.
Non ci sono stata alla fiera, non posso esprimere giudizi da esperienza diretta. E sono certa che ci siano state occasioni di confronto interessanti, sguardi proiettati al futuro e a un mondo migliore. Ho solo il dubbio che alcune conferenze scelte per gli studenti e le studentesse degli istituti superiori abbiano semplicemente mancato il bersaglio. Quale fosse, questo bersaglio, faccio fatica a capirlo.
Mi piange il cuore sapere che una ragazza è entrata con un sogno ed è uscita con un dilemma. Vorrei fosse entrata con un sogno e fosse uscita con la grinta per inseguirlo. Vorrei che non si insegnasse più ai giovani che il lavoro è Lavoro solo quando è fatica, solo quando fa gonfiare il conto il banca. Ma che il lavoro è una scelta consapevole nel rispetto delle proprie aspirazioni, qualcosa a cui ti dedicherai per la maggior parte della tua vita, o anche tutta. E che più lo amerai più sopporterai le fatiche, le notti insonni.
Vorrei insegnassimo ai giovani che “cadere” non significa fallire, ma costruire: esperienza, consapevolezza, umiltà. Vorrei dessimo loro gli strumenti per capire che non è necessario avere le idee chiare oggi, a 18 anni. E che la vita è una corrente che è bello assecondare, ogni tanto. Che magari non farai mai la ballerina, la cantante, l’attrice, la pittrice ma potresti comunque lavorare in quel mondo, perché ci sono tante altre infinite e bellissime professioni che si creano, anno dopo anno. E che se non ci riuscirai, verrai a patto con le tue aspirazioni, ma almeno ci avrai provato. Che non necessariamente si muore di fame se non si diventa manager o imprenditori di successo, ma che l’importante è lavorare per qualcosa che abbia senso per te, per il tuo cuore e la tua testa.
Vorrei che il “brain washing” (lavaggio del cervello) fosse equiparato, per gravità, al “greenwashing” (l’ecologismo che è solo facciata) e che provassimo gioia per poco, piuttosto che frustrazione per il troppo.
Quanto tempo occorre per fare avverare un sogno? A volte non basta una vita, altre è concesso solo tra le braccia di Morfeo. Altre ancora, è qualcosa di improvviso e inaspettato
Ho letto molto su Blanco, in questi giorni. Da quando ha vinto il Festival di Sanremo insieme a Mahmood, con il brano “Brividi”, non si è fatto altro che parlare di lui, di quanto è giovane (19 anni il 10 febbraio), di come il successo sia arrivato all’improvviso, del futuro radioso che sta lì ad aspettarlo, della fidanzata, dei genitori, di record su Spotify, dei suoi abiti e delle trasparenze…di tutto e di più. Eppure c’è qualcos’altro, scivolato via forse troppo velocemente, che ha catturato la mia attenzione.
Qualcosa che risale all’inizio del 2020 quando Riccardo Fabbriconi (questo è il suo nome) se ne stava chiuso in casa come tutti noi altri. Quel qualcosa ha un nome, Quarantine paranoid: il suo primo Ep realizzato con i mezzi che aveva a disposizione e poi caricato su SoundCloud. Grazie a quei cinque brani è stato notato da un’etichetta che gli ha proposto un contratto discografico. La storia potrebbe finire (o iniziare) qui, e stop. Ma lì dentro, per me, ci sta il senso di quella resilienza di cui tanto si parla e poco si conosce: la capacità di assorbire un urto senza rompersi. Che un po’ mi ricorda il kintsugi, l’arte giapponese che utilizza una mistura di lacca e oro per riparare gli oggetti, rendendoli ancora più preziosi.
Febbraio 2020 – febbraio 2022 in un salto di corda. Ventiquattro mesi in un soffio, svaniti tra le mani. Con il lockdown e quel senso di claustrofobia che ha colto un po’ tutti alla sprovvista. Ci sono coppie scoppiate, ragazzini e ragazzine finiti in depressione e sempre più chiusi nel loro isolamento. E così gli adulti, impossibilitati a vedere, fare e pirlare, si sono ammutoliti e inebetiti davanti a uno schermo.
C’è chi, pur soffrendo l’isolamento, ha continuato a coltivare i suoi interessi, approfittando del maggior tempo a disposizione. Per leggere, ad esempio. Per cucinare. Per guardarsi attorno, imparando ad osservare. Per migliorare un hobby o, perché no, per affinare la propria professionalità, coltivare il proprio talento.
Due anni fa, in quelle case che all’improvviso ci sono parse chiuse a catenaccio dal di fuori, c’era anche Riccardo, un giovane ragazzino come tanti, appassionato di musica e calcio. Immaginiamo, visti gli eventi, che il calcio lo potesse praticare ben poco. La musica, invece…quella, probabilmente, gli ha salvato i nervi. Certamente gli ha cambiato la vita. E’ così che quelle “paranoie da quarantena” che hanno rallentato, spossato, demoralizzato e inviperito la maggior parte delle persone, a lui lo hanno motivato, smosso, focalizzato. Non che non gli sia pesato tutto quel tempo sospeso e poi il coprifuoco alle 18 e le videochiamate interminabili per ogni cosa, con gli ormoni adolescenziali in subbuglio e la voglia di scappare. Qualcuno (e forse più) si sarebbe lasciato andare, sopraffatto dall’accidia. Lui no. Nelle parole e nelle note ha trovato le ali per evadere.
Volare restando fermi, chi non l’ha fatto, da giovane?
Ce ne siamo dimenticati, ma la bellezza della vita sta tutta lì, nella capacità di sognare, di credere, di provare. Certo, per farlo bisogna avere delle passioni, qualcosa che faccia battere il cuore e dare forma ai sogni. Ritorniamo, quindi, a due anni fa. Al lockdown e a quel ragazzino ancora minorenne che, appese le scarpette (da calcio) al chiodo, giocoforza, fa l’unica cosa che gli sia possibile fare in casa: cantare. Scrivere, esprimersi. Ora, sui testi si potrebbe obiettare, ma non essendo questo il punto, vado oltre. Il punto è la differenza tra il guardare e il fare, tra il lamentarsi e l’agire, tra l’essere o non essere, suggerisce Shakespeare. Ecco che le nostre “paranoie da quarantena” diventano le sue Quarantine paranoid. Uno sfogo in musica per non impazzire. Quello che accade poi è storia recente: una casa discografica lo nota (pare Hollywood, vero?), per lui arriva il primo contratto, entro l’autunno 2020 il terzo singolo e i primi riscontri del pubblico, i primi riconoscimenti. Più o meno è andata così, mi perdonerà Riccardo-Blanco per gli errori biografici. Salto di anno: nel 2021 Blanco pubblica il suo primo album in studio, Blu celeste, fa le sue prime apparizioni in tv e via così fino al Festival di Sanremo 2022.
Che bello, quindi, ripensare a quel ragazzo nella stanza che non si abbatte. Che sbuffa, grida, scalpita e canta come un pazzo. Immagino le smorfie del suo viso, quando la voglia di spaccare il mondo ti travolge e stordisce. Quando ti senti vivo, nonostante tutto e tutti. Quando non attendi altro che la porta si apra per correre fuori, libero e lontano. Quando hai una passione che ti tiene compagnia nei momenti più bui, anche se sei solo, anche se sei stanco, anche se c’è buio. Questa è l’energia che mi piace e che, anche se non ho più 18 anni, mi fa sentire la vita fra le mani e ancora tanta voglia di fare e di sperare.
La letteratura non permette di camminare, ma permette di respirare (Roland Barthes)
Niente, mi lancerò in parole di disperazione: WordPress, perché mi hai abbandonata?
Mea culpa, non entravo nel blog da diverso tempo. Come posso spiegarvi… sebbene sia abituata a maneggiare le parole (è il mio lavoro), negli ultimi due anni, da quando è scoppiata questa terribile pandemia, ho completamente perso la voglia di “dire la mia”. Ho perso la parola.
E’ diventato un tutto contro tutti. Appena ti azzardi ad esprimere un pensiero, ti attaccano. Se poi sei una giornalista, ti augurano pure la morte. Prima di dire (o scrivere) qualcosa ci penso bene, mi informo, faccio controlli incrociati, verifiche, leggo e rileggo – cancello – mi confronto con chi ne sa più di me, e via di seguito. Ho sempre proceduto in questo modo, però ora sto arrivando a livelli maniacali.
Ormai sembra che tutti, e dico proprio tutti, sappiano lo scibile. Quindi, mi limito a leggere, a osservare sconsolata e muta le bacheche dove le opinioni si scontrano ed esplodono impazzite, impaurita come un gatto in tangenziale. In fondo, mi consolo – o illudo – il silenzio, è un’opera d’arte. Un gesto rivoluzionario, come ci ha insegnato Kazimir Malevich con il suo White on White, nel 1918.
Questo sproloquio per dire che oggi, dopo quasi un anno, ho cercato di darmi una mossa. “Ma sì, dai, azzarda! Butta giù qualcosa, attraversa! Forse ti sei sbagliata, non è una tangenziale ma una strada normale. Pigia sul pulsante del semaforo e chiama il rosso, così le auto si fermano”.
Piena di entusiasmo mi accingo a riguardare tutti i vecchi articoli e a pensarne uno nuovo – non troppo triste perché in passato mi hanno bacchettata assai per questo – e cosa scopro? Che il layout del blog è completamente cambiato. Disperazione! (ma quanti punti esclamativi, Paola, non si fa -!-).
WordPress, perché mi hai abbandonata?! Ora dovrò riprendere in mano l’abbiccì (si scrive così, ho controllato sulla Treccani) Vabbè, me ne torno nella mia stanza, troverò sicuramente qualcosa da scrivere in un altro momento. Tanto, appunto, tutti dicono la loro. Perché non posso farlo anche io?
il giorno in cui il sistema lavorativo metterà le donne nelle condizioni di NON farsi le scarpe l’una con l’altra
il giorno in cui le donne verranno prese in considerazione per incarichi aziendali senza pretendere da loro un’impostazione (e orari) forgiati su tempistiche maschili (spesso completamente avulse da impegni familiari e questioni domestiche)
il giorno in cui il 70% dei complimenti in contesti lavorativi si baserà su qualcosa di ben fatto e non su qualcosa di ben indossato
il giorno in cui i compensi saranno equiparati
il giorno in cui le donne potranno avere un equilibrio tra vita privata e lavorativa senza dover essere GIUDICATE, SMINUITE o DERISE da “super macho” della stupidità… forse un piccolo passo in avanti l’avremo fatto.
Ci sono bollettini ufficiali ai quali il dramma del Covid ci ha purtroppo abituati, e altri che restano nell’ombra. Di suicidio non si parla e non si scrive. Non lo si fa per sensibilità e rispetto verso la dignità delle persone: chi compie il gesto e chi a lui – o a lei – sopravvive. Non lo si fa, soprattutto, per evitare l’ emulazione, rischio confermato dall’Organizzazione mondiale della sanità. La stessa Oms, a marzo, aveva inoltre messo in guardia sul fatto che l’emergenza sanitaria potesse avere conseguenze anche sulla salute mentale. E il confinamento obbligato, in effetti, ha svolto un ruolo di detonatore per alcune fragilità: lo ha fatto con i rapporti di coppia, con gli abusi in famiglia e con i disturbi psichici. Il peso della depressione è aumentato, in alcuni casi aggravato anche da problemi economici. Nelle ultime settimane quattro giovani bresciani hanno compiuto il gesto estremo, tre donne e un uomo nemmeno trentenni. Altri sono stati salvati in tempo dai familiari o dalle forze dell’ordine, che hanno rilevato un picco di interventi salvavita in pieno lockdown. «Sicuramente c’è stato un effetto detonatore – conferma lo psichiatra e psicoterapeuta
Fausto Manara -. Il senso di incertezza, di paura e il doverlo vivere in solitudine, oppure obbligati a relazioni prolungate, magari in spazi ristretti, ha creato tensioni». «Nei periodi in cui si è maggiormente esposti alla solitudine – continua – quei fantasmi che hai in testa e che in altre situazioni mitighi incontrando persone o andando al lavoro, si ingigantiscono. Laddove c’è una struttura di base fragile, dove il nucleo depressivo è comunque presente, il periodo può essere vissuto molto male, fino ad approdare a scelte estreme». Difficoltà che statisticamente si accentuano soprattutto durante le festività natalizie e prima delle ferie estive. «Sono i due periodi dell’anno nei quali si verificano maggiormente i suicidi. In queste situazioni gioca un ruolo fondamentale la solitudine. La difficoltà a stare con sé stessi è figlia di un vicenda emotiva personale, che dipende dal fatto di non considerarsi una buona compagnia. Manca il rapporto di stima, di amore, di capacità di valorizzarsi per quello che si è nella propria individualità». «È chiaro che tutto questo non dipende dalla situazione in sé – precisa Manara – ma dal percorso di vita di queste persone che non le ha aiutate a costruire l’autostima, che è un anticorpo». Può dipendere dalle relazioni familiari ma anche dal temperamento. La «faccia» delle depressione, poi, inganna. «Una persona depressa non è necessariamente in lacrime o affranta. Parliamo di un sentimento interiore e difficile da esprimere perché significa mostrare una propria debolezza. Ci sono persone depresse relativamente socievoli, persino solari. Cercano di mascherare quello che hanno dentro». C’è chi riesce a chiedere aiuto, chi preferisce scontrarsi con i propri demoni da solo. «Spesso il suicidio riguarda persone dalle quali non ce lo saremmo mai aspettato, perché – avvisa – non le guardiamo a sufficienza, non entriamo in contatto profondo con loro al punto di poter cogliere oltre all’esteriorità anche ciò che hanno dentro». Più del dialogo, continua Manara, conta l’ascolto. E saper osservare, più che guardare. Non è semplice capire il disagio e questa nostra società basata sull’immagine, che esalta perfezione, sorrisi e successo trascurando la normalità e deridendo le debolezze, certo non aiuta. «In oltre 40 anni di professione ho riscontato che tutti i mali psicologici sono dovuti alla mancanza di autostima. La preoccupazione di avere difetti porta a compensarli cercando “protesi” come la ricchezza, la perfezione fisica, il successo e vivendo una situazione emotiva che può arrivare alla disperazione» conclude lo psichiatra.
(Mio articolo pubblicato su Bresciaoggi il 26 giugno 2020)
—–>NUMERI DI TELEFONO D’ASCOLTO (E AIUTO) PER I DISAGI MENTALI
Gli adolescenti…già. Ragazzini e ragazzine spesso sottovalutati. Invece, a volte, regalano perle e speranza. Non so cosa resterà di questo 2020 che ci sta scivolando fra le mani. Ma le parole scritte da Leonardo, un quattordicenne di Salò (Brescia), meritano di rimanere scolpite nella memoria. Questo spetta a chi è capace di profondi sentimenti…
***
«Io non so perché. Io davvero non riesco a capire il perché abbiano deciso di prendere quella laurea in medicina. Ormai me lo domando tutti i giorni, ma faccio molta fatica a capirlo». Leonardo ha 14 anni, due grandi occhi marroni e vive a Salò. Ha due fratelli minori e tanta nostalgia di un tempo che pare ormai troppo lontano. Da 25 giorni non vede mamma e papà se non attraverso videochiamate o qualche fugace incontro per la consegna della spesa ai nonni. È nella loro casa che si trova «confinato» ed è lì che ha dato sfogo ai suoi pensieri, scrivendoli nero su bianco, consapevole di essere «troppo giovane per superare il momento e troppo adulto per ignorarlo». I suoi genitori, entrambi medici impegnati nell’assistenza ai contagiati dal Covid 19, sapevano che prima o poi si sarebbero ammalati e hanno dovuto fare una scelta difficile per loro come per tante altre persone che vivono in prima linea l’emergenza sanitaria: allontanarsi dalla famiglia per tenerla al sicuro. «Del resto – scrive Leonardo in una lettera personale che i genitori hanno acconsentito a divulgare – stare con loro sarebbe stato come servire ai miei nonni un biglietto di solo andata nell’aldilà, perciò ora sono qui». E nonostante il «vuoto cosmico» lo turbi in queste giornate alienanti, dove l’unico argomento di cui si parla è il «famigerato Coronavirus», il giovane studente del liceo Scientifico ha saputo tuffarsi nelle sue emozioni più profonde per riemergere con una consapevolezza che lascia stupefatti. Domande che, ammette, «continuano a farsi sempre più pressanti e ad un certo punto vengo trafitto da una lancia di odio e rassegnazione». È la popolazione «ottusa» che non rispetta le regole a farlo arrabbiare: «Forse a loro non importa della propria vita e di quella degli altri, non importa di dover morire senza nessuno che gli stringa la mano». Non esiste giorno in cui Leonardo non si alzi sperando di sciacquarsi il viso e «fermare la corsa del pensiero». Lo chiama «inferno emotivo». La sua mente vaga: durante la lezione di latino davanti al pc, il giovane va alla ricerca del giuramento di Ippocrate. «Tante volte ho chiesto a mia madre il perché avessero scelto di fare questo lavoro e mi aveva sempre risposto che lo facevano per aiutare il prossimo, per salvare vite. Di una cosa però son certo – continua Leonardo: – quando diceva questo non avrebbe mai immaginato di doversi allontanare dai suoi figli per salvare la vita ai suoi genitori». Tra uno sguardo rivolto al nonno, la cui pesantezza della situazione «ritrovo in ogni ruga del viso», i giochi con il fratello coetaneo dagli occhi azzurri «ma come i miei, sembrano sempre più vuoti» e il rifugio nell’amato clarinetto, le ore scorrono, portando Leonardo «a un pianto disperato, secco, senza singhiozzi». È accaduto ancora una volta, riflette: «Ho toccato il fondo del barile». La solitudine attanaglia, la memoria accarezza la «fantastica vita di prima» con gli amici e le risate all’aria aperta. «Una voglia di affetto inimmaginabile» porta il ragazzo in cucina, dove la nonna abbandona per un attimo la preparazione della cena e lo abbraccia «piangendo, di un pianto senza risposta». Andrà tutto bene? Bisogna crederci. E aggrapparsi allo squillo del telefono che annuncia l’arrivo di mamma e papà. La consegna delle scorte alimentari ai nonni, però, non promette abbracci. «Quello rimane solo un sogno. Scendono dall’auto. A coprire bocca e naso, una mascherina. Cala il silenzio». Gli sguardi pieni d’amore e lacrime che non hanno più forza per scorrere. Il contatto negato e straziante. «L’abbraccio è un sogno che si dissolve – scrive Leonardo – E pensare a quanti ne abbiamo respinti fino ad oggi». L’auto dei genitori riparte, «i miei eroi, coloro che potranno forse un giorno ricongiungersi a noi».
Ci sono 277 pagine nel libro Ebano di Ryszard Kapuściński, nemmeno tante. Ma il tempo che ci ho messo a leggerlo…penso che La Repubblica di Platone me ne abbia richiesto meno. La ragione è semplice: Ebano non è un libro. Ebano è un’esplorazione che ti conduce dritto al cuore dell’Africa. E un’esplorazione, si sa, richiede tempo.
Amo leggere Kapuściński, mi stimola la mente. Questa volta mi ha acceso i sensi. E tutto è partito dall’immensa pianura del Serengeti:
“Ovunque si guardi, mandrie oceaniche di zebre, antilopi, giraffe e bufali intenti a pascolare, a saltabeccare, a ruzzare, a galoppare. Proprio accanto alla strada, alcuni leoni immobili; un po’ oltre, un branco di elefanti; più oltre ancora, sulla linea dell’orizzonte, un ghepardo che sfreccia a grandi salti. Uno spettacolo incredibile, inaudito: come assistere alla creazione dell’universo nel momento in cui già esistono cielo, terra, acqua, piante e animali selvatici, ma non ancora Adamo ed Eva. In questo posti si riesce a vedere un mondo appena nato, un mondo senza l’uomo e quindi senza peccato: un’esperienza assolutamente grandiosa”. (capitolo “Io, ilBianco”)
Ti imbatti in una descrizione simile, e cosa fai? Riempi una borraccia d’acqua, prendi un cappello di paglia a tese larghe, indossi un vestito lungo di lino bianco e ti metti in viaggio…
Eppure non è stata “solo” la stupefacente natura – a volte arida, altre sfavillante – a rapirmi. C’è tutta una storia di cui, tranne che per specifici avvenimenti, non ho mai sentito parlare. Storia che non ho mai studiato, non ho mai saputo. Parola dopo parola il libro ha generato un ipertesto affascinante. Cellulare alla mano, non mi sono trattenuta dal googlare nomi di personaggi, città, alberi, date. Mi sono “spostata” dalla tratta degli schiavi iniziata a metà del XV secolo fino allo schiavismo “autoctono” della Liberia (dove nel 1821 le navi iniziarono a portare dagli Usa contingenti di schiavi liberati che diventarono a loro volta schiavisti), dai colpi di stato alle imboscate guidate da gruppi di ragazzini armati, accaniti e cruenti, passando attraverso la magia, la sofferenza di chi si nutre di sola acqua e gioisce per un pugno di riso, fino alle leggende tramandate di bocca in bocca al riparo ombroso di un maestoso albero di mango in un villaggio della provincia etiopica di Wollega, non lontano dal Nilo azzurro. Ho scoperto che le madri africane, ogni volta che un bambino fa una birichinata, lo sgridano dicendo: “Se non fai il bravo viene lo mzungu che ti mangia!” e che mzungu, in lingua swahili, significa il Bianco, l’europeo. R.K. mi ha condotta con sé e mi ha lasciata, incantata, a guardare il sole che sorge e ad ammirare i suoi raggi che si riflettono nell’acqua dei recipienti: “L’acqua palpita, oscilla e luccica come argento vivo”. Lo stesso sole che, altre volte, “coagula il sangue, paralizza, tramortisce”. L’Africa “è un coacervo delle più svariate, più diverse e più contrastanti situazioni” scrive Ryszard Kapuściński. E io lo ringrazio per aver lasciato una testimonianza così unica e preziosa in questo splendido (e denso) libro.
“Questo libro non parla dell’Africa, ma di alcune persone che vi abitano e chi vi ho incontrato, del tempo che abbiamo trascorso insieme. L’Africa è un continente troppo grande per poterlo descrivere. E’ un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vario e ricchissimo. E’ solo per semplificare e per pura comodità che lo chiamaiamo Africa. A parte la sua denominazione geografica, in realtà l’Africa non esiste”.
Se quel continente vi affascina, incuriosisce e anche intimorisce, se volete assaporare la scrittura sublime (definita anche etica e ammaliante) di questo straordinario giornalista polacco che ci ha regalato reportage unici e che è scomparso nel 2007, leggete Ebano.
Mamma, mi manchi. Non è una novità, lo so. Voglio dirti grazie (quando mai finirò di farlo?). Grazie perché, anche questa volta, hai fatto qualcosa per me, per alleviare le mie paure, le mie ansie. E’ già passato un anno da che te ne sei andata, tu solo sai quanto strazio mi porto dentro.
Il 25 febbraio 2020 è stata la ricorrenza del tuo addio ed è stata l’ultima volta che son venuta a trovarti al cimitero. Chissà le primule come saranno appassite… Sarei tornata a farti visita la settimana dopo se l’Italia (il mondo intero, in realtà) non fosse stata travolta dall’aggressività del Covid-19. Tu lo sai che non ho avuto scelta: la prima febbre, il mal di gola, il malessere. “Resta a casa, curati!”, mi avresti detto.
Nel frattempo, come in un in black out, tutta la città si è “spenta”. Ora ognuno è rinchiuso nelle sue case, sospeso in un tempo inafferrabile che tuttavia non risparmia preoccupazioni. E che preoccupazioni. Ecco perché ti ringrazio. Mi rendo conto possa suonare lugubre ai più, questo mio ringraziamento. Ma a me importa che tu lo comprenda, e so che lo farai.
Grazie, mamma. Perché se dovevi scegliere un momento per uscire di scena, hai scelto il momento giusto. Lo hai fatto per altri motivi che solo io e te sappiamo, ce lo siamo bisbigliate quella domenica notte, prima del tuo addio. Nonostante la mancanza della tua voce, del tuo sorriso e del tuo amore, mi destabilizzi quotidianamente come una vertigine, ti ringrazio per esserti congedata quel giorno di un anno fa. Perché oggi, in questa situazione, non avrei sopportato lo strazio di un addio senza nemmeno poterti sfiorare una mano.
Questo è ciò che sarebbe accaduto se tu, fragile com’eri, ti fossi trovata ad affrontare questa emergenza inimmaginabile e crudele. Una segregazione forzata che tiene lontani i figli dai genitori anziani e che, quand’anche permetta loro di vederli in condizioni di necessità, non consente la condivisione, l’abbraccio e l’assistenza continua di cui tu avresti avuto bisogno (ed io con te). Solo tu, mamma, puoi sapere il macigno che avrei avuto sul cuore e solo tu sai il peso che, a sua volta, avrebbe affaticato il tuo di cuore, con la preoccupazione per quel mio senso d’impotenza. Sono sopravvissuta alla tua scomparsa, anche se non passa giorno in cui, anche solo per una frazione di secondo, sento di volermi sollevare in alto verso te, fino a raggiungerti, perché da sola non ce la posso fare. Ma è solo una debolezza umana, suppongo.
Una debolezza che riesco a gestire cullandomi in quelle ore tutte nostre, quando sul letto della Rianimazione, all’inizio del tuo sonno eterno, abbiamo parlato di noi, del mare e dei sogni e non abbiamo smesso nemmeno in quelle ore fredde che dalla camera ardente ci hanno condotto all’ultimo saluto. I tuoi occhi erano chiusi, certo. Eppure sono certa che il tuo cuore mi abbia ascoltata. Ho avuto il dono di potermi confessare a te, di potermi scusare, di poterti parlare, abbracciare, baciare. Ciò nonostante è quotidiano il peso dei sensi di colpa che mi trascino dietro…quale figlio ne è immune?! Ma se penso a quanto tutto ciò avrebbe potuto aggravarsi di pena e d’impotenza se fosse accaduto oggi, provo un senso di sollievo.
Per questo ti ringrazio, mamma. Perché hai saputo, anche in una situazione inverosimile come quella che stiamo attraversando, restarmi accanto. La tua assenza, provvidenzialmente è diventata presenza. Se non avessi potuto dirti addio, se non avessi potuto stringere le tue guance tra le mie mani per un’ultima volta ancora, se non avessi potuto metterti quelle due gocce di profumo che ti piaceva tanto, se la sepoltura fosse avvenuta in quella solitudine che necessariamente impone questa dannata emergenza sanitaria, il mio cuore si sarebbe squarciato. Terribile è il dolore che molti figli stanno provando in queste giornate, impossibilitati a muoversi. Ostaggi del Coronavirus. Lontani dai loro cari, dalla loro sofferenza, dalla loro solitudine. Padri e madri che si spengono come una candela al vento, nella tempesta. Come vorrei abbracciarli tutti: genitori, figli, nipoti. E poter dar loro una carezza di conforto…
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