Leggerezza
Memories
Siete fortunati voi trentenni e quarantenni che avete ancora i nonni. Fatevi raccontare il loro passato, abbiate cura dei loro ricordi. Saranno cimeli inestimabili, un giorno.
E lo facciano anche i vostri genitori, parlino con la loro mamma e il loro papà. E parlino con voi della vostra infanzia. Perché potranno aiutarvi a mettere insieme i tasselli di una storia che vi appartiene.
E’ importante. Più il tempo passa e più me ne rendo conto.
La mia memoria storica era mia madre, seppur con molte lacune. E ora che lei non c’è più, non so a chi rivolgermi. Nella mia famiglia – di quel poco che resta – il ricordo non è tenuto in allenamento. Il mio, latita. Ero giovane quando i miei nonni sono morti.
Un giorno inizi a cercare qualcosa: un senso di appartenenza, un filo da ripercorrere per “tornare a casa”… ma non lo trovi. E ti senti ancora più sola, al mondo. Soprattutto quando non hai figli, tanto meno avrai nipoti.
Il futuro? Un’onda che si infrange sulla battigia, cancellando orme.
Quando questo pensiero mi assale, mi aggrappo al passato. Perché il ricordo (che ha un significato meraviglioso: “richiamare al cuore”) è un fertilizzante per i sentimenti. Ed è anche “un abbraccio” che ci viene in soccorso nei momenti di sconforto. Riesce quasi a restituirci fisicamente la persona a noi cara, con le sue espressioni, i suoi profumi, il tono della voce. Il suo calore…
Coltivate il terreno della memoria, finché siete in tempo. Potrete assaporarne il frutto.
Germani Basket, un Ho-Chunk sulle orme di Toro Seduto
Oggi vi propongo una storia curiosa che parte da un campo da basket e arriva alle riserve dei nativi americani. Il protagonista è Bronson Koenig, nuovo giocatore della Germani Basket di Brescia. Un giovane uomo dall’esistenza affascinante. Talento di gioco e di cuore. Ne ho scritto qualche giorno fa su Bresciaoggi. A seguire, l’articolo. Buona lettura.
Con Bronson Koenig, alla Germani Basket di Brescia, non è arrivata solo una star statunitense del basket universitario, talento di abilità e precisione in rapida ascesa. È arrivato un giovane uomo che nel 2016 (a 22 anni) si è guadagnato la notorietà per aver sostenuto la lotta dei nativi americani contro il Dakota Access Pipeline, un oleodotto sotterraneo che secondo i Sioux potrebbe avvelenare l’approvvigionamento idrico della loro riserva e quello di milioni di persone. Perché Koenig – i tatuaggi sul corpo glielo rammentano ogni giorno – è uno di loro. Nato da madre 100% Ho-Chunk e padre bianco, il cestista non nasconde di essersi spesso sentito «come uno sconosciuto in due terre» e aver lottato con sé stesso per comprendere a fondo la sua identità. Il viaggio di tre anni fa, compiuto prima di iniziare l’ultimo anno di college in Wisconsin e il campionato di basket, ha segnato una tappa importante nella sua vita: fra migliaia di persone accampate in tende e camper, sotto lo stringente controllo della polizia, non solo ha testimoniato il suo impegno civico, ma ha toccato, e riscoperto, le proprie origini. È stato lui stesso a raccontarlo su The Players Tribune. «La bandiera della nostra tribù Ho-Chunk volava sulla nostra roulotte» scrive Bronson Koenig nella cronaca del suo viaggio verso la riserva di Standing Rock, fatto insieme al fratello. Arrivato fra più di 300 tribù provenienti anche da Florida, Alaska e dal Sud America, racconta di aver subito sentito un legame. «Difficile da descrivere. Nella prateria, lontano da casa, ho sentito un senso di conforto». Ma il cuore della combo guard statunitense lo si misura soprattutto nell’incontro con i più piccoli di Standing Rock, che giocavano su un campo da basket improvvisato, lì dove la protesta Sioux – oggi ripresa con vigore dopo l’entusiastico sostegno di Trump agli oleodotti – esprimeva il proprio dissenso. «Alcuni avevano lunghi capelli legati, nel tradizionale stile nativo americano. C’era chi indossava nuove scarpe da ginnastica, altri le avevano ai piedi logore. Un bambino indossava la maglia di Julius Randle dei Lakers» racconta Bronson Koenig. «Ho giocato a basket per tutta la mia vita. Pensavo di aver visto ogni tipo di campo da basket, ma ciò che ho provato sul quello spazio di terra battuta, non è paragonabile a nessun’altra esperienza vissuta». «I miei occhi continuavano a vagare verso l’orizzonte, verso le colline un miglio a nord, dove si trovavano i bulldozer. Non avevo mai giocato a basket circondato da polizia e blocchi». Il cestista si è commosso davanti a quel «mare di bambini, tutti con i loro occhi su di me» e al pensiero delle terribili statistiche su chi vive nelle riserve tra abusi di droghe, depressione, malnutrizione e tassi di suicidio superiori alla media. Poi un piccolino gli ha chiesto se lui, da ragazzino, avesse avuto un nativo come modello da seguire. «Ho sentito la voce spezzarsi. Non avevo modelli, ma mi sono reso conto che loro, invece, avevano me. È stato un momento che mi ha commosso più di quanto mi aspettassi. Non ero venuto a Standing Rock per essere un “modello”. Ero venuto ad aiutare. Essere d’esempio anche per un solo bambino di Standing Rock, però, mi rendeva orgoglioso più di qualsiasi altra cosa avessi potuto fare, anche su un campo da basket». Bronson guarda al futuro con sfida «forse il cielo è il limite» e saggezza: «Se un uomo perde qualcosa e torna indietro a cercarlo con attenzione, lo troverà. Vado avanti tenendo a mente queste parole di Toro Seduto».
(Paola Buizza – Bresciaoggi)
Melodia
Ero giovane e scrivevo poesie. Mentre i miei amici uscivano, io entravo, sempre più, dentro di me. Non ero (e non sono) triste. Ma sono creta plasmata dalle emozioni, tra azioni e reazioni. Tutto ciò che accade, lascia un segno su di me. Certe volte, zampilli di gioia. Altre, veli di malinconia. Il mio cuore è baricentro della mia esistenza. Questa poesia è nata a settembre, in un giorno che non ricordo, tanti anni fa.
Dolce sguardo
in grazia per ieri, che fu
stringi gli occhi
innanzi a te
è la vita,
toccala
come fosse petalo di rosa
profumo, che inebria il cuore
colore, che riaccende la passione.
Dolce sguardo
dalle corde tristi
suoni melodie di ricordi
e non vedi
la musica del tempo
la luce, nel buio
la calma, nella tormenta
l’armonia della vita.
Dolce sguardo
enigmatico, sorpreso
disilluso
eppure
tranquillo.
Illuminato dal sole
mitigato dalla notte
pronto a un nuovo giorno. (LaBui)
Fragili
Viviamo come fiocchi di neve/un miracolo dal cielo/candidi/ solidi/stupefacenti/luminosi/poi/grigi/fragili/menci/svaniti (LaBui)
Parole
Parole ferme
guardano
la pioggia
cadere
ad occhi bassi
si tengono
per mano
e il petricore
sollevato
in aria
cattura
i loro occhi
nell’estasi
di una notte
di stelle cadenti (LaBui)
E’ la Biennale, bellezza!
L’Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia (leggi: Biennale) è un mare sconfinato di emozioni, non sempre gradevoli, lo ammetto. Ma a ogni passo, a ogni pausa, in ogni angolo, cresci un po’ come essere umano. Penso non accada a tutti, ovviamente.
Bisogna saper stare nel ventre della balena, compiere, come spiegava George Orwell in un suo noto saggio, l’atto di Giona: farsi inghiottire restando passivo, accettando. E in quel ventre io ci torno sempre volentieri, con un entusiasmo e un’euforia spiazzanti, quasi fossi una bambina sulle giostre di Gardaland. Mi affascina, la Biennale. E mi fa sentire completamente al centro di un mondo multietnico e multiculturale senza barriere, giudizi e pregiudizi.
Ci sguazzo e, a volte, mi lascio trascinare a fondo. Negli abissi di linguaggi che non comprendo, di ovvietà che ingannano, di truculente o scandalose immagini che mi ripugnano. Stanze buie nelle quali accedi a tentoni, con una mano a cercare la conferma di una parete d’appoggio e dalle quali esci spogliato di corazze, con occhi su fatti che fino a ieri non avevi visto, ma solo guardato. Squarci di luce su convinzioni improvvisamente recise, abbracci di suoni che cullano l’esistenza di esseri ingrati e crudeli. Parole sussurrate, disegnate, illuminate o solo accennate per scuotere, risvegliare.
Tra la bellezza dei Giardini e l’imponenza dell’Arsenale, abbagliati da una Venezia incantevole, il respiro si fa ampio e salvifico. Non ci sono padiglioni da consigliare, opere verso cui indirizzare. Da elogiare o denigrare.
La Biennale è un fine lavoro sartoriale e, come tale, ti cuce addosso sensazioni uniche, irripetibili. Autentiche. Stimola i sensi e gioca con la tua storia personale. Ti scompone come una folata di vento. Ti spaventa, come un boato. Ti disturba, come un tanfo. Ti annoia. Ti sveglia. Ti inquieta. Ti cattura.
Si annida nella mente per poi riaffiorare, nel tempo, sotto forma di ricordi, sensazioni, profumi. Amata, odiata, elogiata o discussa. Ma esperienza conoscitiva e, come tale, arte. E’ la Biennale, bellezza. E tu non ci puoi fare niente. Niente.
L’assenza
Non c’è un numero di telefono
da chiamare
un aereo o un treno
da prendere
un’auto da guidare
Non c’è una lettera
da scrivere
un messaggio da inviare
una visita da fare
Non c’è più parola
che ti possa arrivare
un abbraccio
che ti possa scaldare
uno sgarbo
che ti possa offendere
Non c’è un regalo
da comprare
oppure la spesa
da fare
la spazzatura
da buttare
Non c’è più nulla
che io possa fare
e per quanto mi sforzi
d’immaginare
non c’è più una mano
da stringere
occhi in cui
guardare
Non c’è più un modo
per raggiungerti
non più un mondo
da condividere
non più un sogno
da costruire assieme
Non ci sei più
e il pensiero mi stravolge
L’immagine di te
mi percuote l’anima
Il tono della tua voce
l’angolatura del tuo sorriso
…dove sono?
Definitivo come la morte
è vero, nulla al mondo c’è. (LaBui)
Cammina
Riemergono da archivi giovanili (im)probabili poesie. Cercavo la forza e me la davo da sola. Sempre così , io. Una vita “contro”.
Puoi lasciarti rubare i sogni
e svuotare le idee
puoi anche farti stracciare
i desideri
e scomporre ideogrammi
Puoi farti spegnere
il sorriso
e appesantire il passo
puoi anche chiudere
gli occhi
zittire la parola
Eppure
la vita continuerà
il sole sorgerà
la ruota girerà
il cuore batterà
nonostante il diniego
E allora
abbottonati i polsini
alzati il bavero
guarda dritto
e cammina
Cammina fino
a una nuova domanda
raggiungi lo spazio
di una nuova lacrima
vivi un nuovo sospiro (LaBui)
Anime
“Trovo molto ragionevole la credenza celtica secondo cui le anime di coloro che abbiamo perduto sono imprigionate in qualche essere inferiore, un animale, un vegetale, una cosa inanimata, di fatto perdute per noi fino al giorno, che per molti non arriva mai, nel quale ci troviamo a passare accanto all’albero, a entrare in possesso dell’oggetto che è la loro prigione. Allora esse sussultano, ci chiamano, e non appena le abbiamo riconosciute, l’incantesimo è rotto. Liberate da noi, hanno vinto la morte, e ritornano a vivere con noi”.
(Alla ricerca del tempo perduto – Marcel Proust)
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.