Ci sono bollettini ufficiali ai quali il dramma del Covid ci ha purtroppo abituati, e altri che restano nell’ombra. Di suicidio non si parla e non si scrive. Non lo si fa per sensibilità e rispetto verso la dignità delle persone: chi compie il gesto e chi a lui – o a lei – sopravvive. Non lo si fa, soprattutto, per evitare l’ emulazione, rischio confermato dall’Organizzazione mondiale della sanità. La stessa Oms, a marzo, aveva inoltre messo in guardia sul fatto che l’emergenza sanitaria potesse avere conseguenze anche sulla salute mentale. E il confinamento obbligato, in effetti, ha svolto un ruolo di detonatore per alcune fragilità: lo ha fatto con i rapporti di coppia, con gli abusi in famiglia e con i disturbi psichici. Il peso della depressione è aumentato, in alcuni casi aggravato anche da problemi economici. Nelle ultime settimane quattro giovani bresciani hanno compiuto il gesto estremo, tre donne e un uomo nemmeno trentenni. Altri sono stati salvati in tempo dai familiari o dalle forze dell’ordine, che hanno rilevato un picco di interventi salvavita in pieno lockdown. «Sicuramente c’è stato un effetto detonatore – conferma lo psichiatra e psicoterapeuta
Fausto Manara -. Il senso di incertezza, di paura e il doverlo vivere in solitudine, oppure obbligati a relazioni prolungate, magari in spazi ristretti, ha creato tensioni». «Nei periodi in cui si è maggiormente esposti alla solitudine – continua – quei fantasmi che hai in testa e che in altre situazioni mitighi incontrando persone o andando al lavoro, si ingigantiscono. Laddove c’è una struttura di base fragile, dove il nucleo depressivo è comunque presente, il periodo può essere vissuto molto male, fino ad approdare a scelte estreme». Difficoltà che statisticamente si accentuano soprattutto durante le festività natalizie e prima delle ferie estive. «Sono i due periodi dell’anno nei quali si verificano maggiormente i suicidi. In queste situazioni gioca un ruolo fondamentale la solitudine. La difficoltà a stare con sé stessi è figlia di un vicenda emotiva personale, che dipende dal fatto di non considerarsi una buona compagnia. Manca il rapporto di stima, di amore, di capacità di valorizzarsi per quello che si è nella propria individualità». «È chiaro che tutto questo non dipende dalla situazione in sé – precisa Manara – ma dal percorso di vita di queste persone che non le ha aiutate a costruire l’autostima, che è un anticorpo». Può dipendere dalle relazioni familiari ma anche dal temperamento. La «faccia» delle depressione, poi, inganna. «Una persona depressa non è necessariamente in lacrime o affranta. Parliamo di un sentimento interiore e difficile da esprimere perché significa mostrare una propria debolezza. Ci sono persone depresse relativamente socievoli, persino solari. Cercano di mascherare quello che hanno dentro». C’è chi riesce a chiedere aiuto, chi preferisce scontrarsi con i propri demoni da solo. «Spesso il suicidio riguarda persone dalle quali non ce lo saremmo mai aspettato, perché – avvisa – non le guardiamo a sufficienza, non entriamo in contatto profondo con loro al punto di poter cogliere oltre all’esteriorità anche ciò che hanno dentro». Più del dialogo, continua Manara, conta l’ascolto. E saper osservare, più che guardare. Non è semplice capire il disagio e questa nostra società basata sull’immagine, che esalta perfezione, sorrisi e successo trascurando la normalità e deridendo le debolezze, certo non aiuta. «In oltre 40 anni di professione ho riscontato che tutti i mali psicologici sono dovuti alla mancanza di autostima. La preoccupazione di avere difetti porta a compensarli cercando “protesi” come la ricchezza, la perfezione fisica, il successo e vivendo una situazione emotiva che può arrivare alla disperazione» conclude lo psichiatra.
(Mio articolo pubblicato su Bresciaoggi il 26 giugno 2020)
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